mercoledì 17 luglio 2013
ILVA, I TA M B U R I DI TARANTO SUONANO ANCORA A MORTO
Dopo un anno dalle promesse di Clini, il viaggio nel quartiere a ridosso
dell’acciaieria dove nulla è cambiato: si continua a morire, le mamme tengono
i bimbi in casa e gli appartamenti sono tutti in vendita. Ma nessuno li vuole
di Sandra Amurri inviata a Taranto Il fatto quotidiano 17 luglio 2013
Èuna giornata ventosa
a Tamburi, il
quartiere che custodisce
nel suo grembo
il mostro che si chiama Ilva.
Una mamma con una mano
spinge lentamente il passeggino
e con l’altra controlla che il
cappellino ripari il viso del suo
bimbo non dal sole ma dalla
polvere rossa che il vento, che
oggi spira da destra, fa posare
solo su una guancia e sull’orec -
chio. “Lo tengo sempre in casa
con le finestre chiuse, anzi con
le doppie finestre di alluminio
che abbiamo messo, ma oggi
debbo portarlo dalla pediatra
perché respira affannosamente”,
si giustifica come se il nostro
sguardo l’avesse sorpresa a
commettere un reato.
SONO TRASCORSI tre anni da
quell’ordinanza affissa sui muri
del quartiere Tamburi che vietava
ai bambini di giocare sui
prati contaminati dal piombo, e
imponeva alle mamme, la sera,
di lavarli dalla testa ai piedi ed
immergere i vestiti nel sapone e
nell’Amuchina. L’ordinanza è
stata revocata. Ma l’inquina -
mento no. Ed è passato un anno
da quando l’allora ministro dell’Ambiente
Corrado Clini disse
che non avrebbe mandato suo
nipote alla scuola elementare
“Maria Grazia Deledda” a ridosso
delle ciminiere. Ma i
bambini, che non hanno la fortuna
di essere suoi nipoti, qui
continuano a stare, a giocare, ad
ammalarsi di asma, di ogni genere
di allergia, di tumore alla
prostata e di leucemia. Come
Paolo, 6 anni, i capelli li ha perduti
durante la chemioterapia
che lo ha sfiancato. Ma ha ancora
la forza per sorridere mentre
la mamma lo spinge sull’al -
talena attaccata ai due alberi di
quello che chiamano giardinetto
pubblico: una piattaforma di
cemento e due panchine sgangherate.
Il ricordo dei sei mesi
di ospedale è stampato a fuoco
negli occhi della giovane madre.
Il papà è disoccupato. Il
nonno, operaio Ilva in pensione,
è morto di tumore. Case fatiscenti
come quelle popolari.
Case in vendita, come quelle di
proprietà. Ognuna ha il suo cartello
davanti alla porta. Ma nessuno
verrà a stare ai Tamburi
dove chi ci vive è condannato a restare. In una delle palazzine
che si affacciano sul camino più
alto l’E 312 dove vengono convogliati
tutti i fumi, vivevano 5
famiglie decimate dal cancro. A
casa di Gianfranco Carriglio, 65
anni dove veniamo invitati, sua
moglie Maria, ripone la biancheria
nei cassetti avvolta nei
teli di lino perché la polvere,
spiega, entra anche lì. Ha l’aria
stanca Maria, anche stanotte
non ha chiuso occhio, il rumore
dei cannoni che sparano acqua
sui parchi minerali per ridurre
lo spargimento della polvere al
soffiare del vento è pari a quello
delle eliche di dieci elicotteri
che ti sorvolano sulla testa. “Pri -
ma ci gettavano una specie di
gel e la polvere che arrivava era
collosa”, racconta. Anche le
piante, fino al giorno prima fiorite,
quando c’è vento, muoiono
all’improvviso. Eppure suo
zio, anche lui ex operaio dell’Il -
va, malato di tumore con metastasi
in tutto il corpo, quando
la sente dire che il mostro dell’acciaio
deve chiudere dice: “E
addò hanna scé fadià le vagnone?
(E poi dove devono andare
a lavorare i ragazzi? ndr)” . Eccolo
il ricatto che fa sopportare
l’insopportabile: il lavoro in un
quartiere dove vivono 16 mila
persone con una disoccupazione
che sfiora il 60%. La morte
non la senti finché non ti porta
via, la mancanza di pane sì e ti
umilia fino a farti sperare che i
tuoi figli possano essere assunti
all’Ilva. E questo i Riva lo sanno
bene, come tutti quelli che continuano
a far finta di non sapere
che la madre di questa carneficina
si chiama “area a caldo”,
quella che garantisce il profitto,
altro che fumo di sigarette e alcool.
Chissà cosa inventerà ancora
Enrico Bondi quando il 24
luglio sarà convocato dal ministro
Andrea Orlando.
ASCOLTARE Maria, donna
consapevole e non arresa, è come
sentire un bollettino di
guerra: nomi divorati da tumori
di ogni specie. Sul suo balcone
il lenzuolo bianco con su scritto:
“Non voglio morire di Ilva”.
È diventato rosso per la polvere
ma sventola ancora. Francesco,
16 anni già ambientalista, che,
un mese fa ha perduto la sua
battaglia contro la leucemia, fino
all’ultimo ha ripetuto: “Non
voglio morire ce la faremo tutti
insieme a far chiudere l’Ilva”. A
Tamburi il 70% delle donne soffre
di endometriosi e infertilità
e gli aborti spontanei sono frequentissimi.
“Eppure la parrucchiera,
che è riuscita a restare
incinta mi ha detto: ‘Spero che il
mio latte non contenga diossina,
non abbiamo i soldi per
comperarlo, mio marito, disoccupato
non riesce ad entrare all’Ilva’”.
Ogni domenica nella
Chiesa del Gesù Divin Lavoratore
che custodisce tanti doni
della famiglia Riva, compresi i
pannelli solari sul tetto della canonica,
don Nicola Preziosi invita
i fedeli a non perdere la speranza,
la sola rimasta: che Gesù
scenda dalla croce per rendere
giustizia ai bambini di Tamburi.
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