Lunedì Grasso (con bugie)
Più informazioni su: Gian Carlo Caselli, Giulio Andreotti, Marcello Dell’Utri, Marco Travaglio,Massimo Ciancimino, Pietro Grasso. http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/27/lunedi-grasso-con-bugie/544126/
Nelle quasi due ore di intervista concordata per rispondere ai tre minuti che gli avevo dedicato a Servizio Pubblico, Corrado Formigli e Piero Grasso hanno detto moltissime cose.
Tralascio, per palese irrilevanza, quelle dette da Formigli (a parte il
rivendicare come “la cosa più normale del mondo” convocare con un tweet
notturno un confronto fra la seconda carica dello Stato e un
giornalista di un’altra testata, che fra l’altro non frequenta twitter).
E passo immediatamente al presidente del Senato, che si conferma
purtroppo un pubblico mentitore e approfitta del fatto che i suoi
colleghi della Procura di Palermo non possono andare in tv a
sbugiardarlo. Se però mi vorrà querelare, sono in molti che verrebbero
volentieri a testimoniare sotto giuramento come sono andate le cose e
dove sta la verità.
Balla n. 1: appello Andreotti.
Grasso dice di non aver firmato né “vistato” l’atto di appello della
sua Procura contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado per motivi
squisitamente tecnici, in quanto era stato sentito come testimone e la
sua adesione all’appello avrebbe precluso ai giudici la possibilità di
risentirlo in appello. È falso. Quando, nell’estate 2000, i procuratori
aggiunti Scarpinato e Lo Forte gli consegnano il plico
dell’impugnazione, Grasso rifiuta non solo di sottoscriverlo, ma anche
di apporre il “visto” rituale, dicendo che non l’ha letto e non c’entra.
Un gesto di plateale presa di distanze, che gli vale le lodi sperticate
del Foglio di Ferrara e del Velino di Jannuzzi. Anziché respingere
quegli imbarazzanti elogi, Grasso rilascia un’intervista al Quotidiano
Nazionale e spiega che “forse, se avessi avuto più tempo a disposizione,
avrei potuto collaborare anch’io alla stesura” (7.8.2000). E un’altra a
La Stampa in cui boccia i processi della stagione Caselli, capace – a
suo dire – di “ottenere condanne solo sulla stampa, nella fase delle
operazioni di cattura, e non sempre nelle sedi giudiziarie e in via
definitiva” (19.8.2000). Potrebbe dichiarare subito che il mancato visto
è dovuto a un motivo squisitamente tecnico (il suo ruolo di ex
testimone), ufficializzando così la sua vicinanza ai pm nel mirino per
aver osato processare uno dei padroni d’Italia. Invece, col suo attacco a
Caselli e ai processi eccellenti istruiti sotto la sua guida, li
delegittima e li isola. Soltanto parecchio tempo dopo Grasso scoprirà
improvvisamente di non aver firmato l’appello Andreotti (fra l’altro
coronato dal successo di una sentenza d’Appello, poi confermata in
Cassazione, che dichiarerà provata la mafiosità dell’ex premier fino al
1980) perché aveva testimoniato in primo grado. Una scusa puerile e
infondata, sia perché nessuno pensava di richiamarlo a testimoniare in
appello; sia perché, da procuratore nazionale antimafia, Grasso ha poi
coordinato per anni varie indagini sulle stragi, in cui era stato
chiamato a testimoniare più volte sui suoi rapporti con Falcone e sulla
sua funzione di giudice del maxiprocesso, e non si è mai sognato di
astenersi per quel motivo.
Balla n. 2: caso Giuffrè.
Nel giugno 2002 si pente Antonino Giuffrè, boss delle Madonie,
fedelissimo di Provenzano e membro della Cupola. Grasso dice che Giuffrè
“valeva oro” perché sapeva tutto di tutti i livelli mafiosi. Dunque
cosa fece? Non avvertì nessuno dei pm antimafia, né tantomeno le procure
di Firenze e Caltanissetta che indagavano sulle stragi, e per ben tre
mesi se lo gestì da solo, clandestinamente, insieme al fido aggiunto
Pignatone e al fido sostituto Prestipino (all’altro aggiunto Lo Forte
diede la notizia, ma negò l’accesso ai verbali). E lo interrogò
“personalmente nel carcere di Novara”, ma “solo i sabati e le
domeniche”: mossa geniale, quella di giocarsi 5 giorni su 7 a settimana,
visto che la nuova legge sui pentiti dava ai pm solo 6 mesi di tempo
per cavargli di bocca tutto quel che sapeva. Perché tanta segretezza?
Per evitare “fughe di notizie” che avrebbero messo a repentaglio la vita
dei famigliari del neopentito: oltretutto – dice Grasso – “Giuffrè mi
aveva parlato di talpe in Procura, che poi abbiamo individuato”. Se ne
deduce che Grasso sospettava (senza prove) dei suoi colleghi, e perciò
disattese la regola-Falcone della “circolazione delle informazioni” nei
pool antimafia. Ma non basta: nei primi tre mesi (su sei a disposizione)
interrogò Giuffrè quasi soltanto su certe estorsioni nelle Madonie, che
porteranno all’arresto di una dozzina di pastori: la gallina delle uova
d’oro che partorisce il topolino. Per annunciare i mirabolanti arresti,
Grasso convocò una conferenza stampa il 20.9, svelando la
collaborazione di Giuffrè “nuovo Buscetta”. Insomma, la fuga di notizie
la fece il procuratore che ora dice di averla sventata, precludendo
l’effetto sorpresa che poteva portare alla cattura di latitanti o al
rinvenimento di prove decisive sui rapporti mafia-politica. Per questo
tutta la Dda di Palermo “processò” Grasso che alla fine dovette
capitolare: Giuffrè poteva essere sentito (giorno e notte, a tappe
forzate, essendo rimasti solo tre mesi) dai pm dei processi eccellenti. A
loro rivelò particolari importanti su Andreotti, B., Dell’Utri e
trattativa, che Grasso non aveva chiesto. Non solo: consentì di
individuare il referente mafioso delle talpe in Procura (che non erano
pm, ma i marescialli Ciuro e Riolo): il costruttore Michele Aiello. La
scoperta si deve ai pm Scarpinato, Lari, Russo, Paci, Piscitello, Guido e
Tarondo che lo interrogarono a tutto campo il 12.11.2002. Lì Giuffrè
rivelò che Aiello era un prestanome di Provenzano. Così Grasso e i suoi,
due anni dopo, fecero arrestare lui e i marescialli-talpa. Dunque è
falso che la segretezza su Giuffrè abbia consentito la scoperta delle
talpe: al contrario, fu proprio quando Grasso dovette informare su
Giuffrè i suoi pm che le talpe furono smascherate.
Balla n. 3: Ciancimino & C.Partito
Grasso da Palermo nel 2005, dai cassetti della Procura saltano fuori un
sacco di documenti dimenticati o trascurati sui rapporti
mafia-politica. 1) Le intercettazioni dirette e/o indirette di
telefonate del 2003-2004 fra il prestanome di Vito Ciancimino, il
ragionier Lapis, e gli on. Cintola, Romano e Vizzini, in cui si parlava
anche di Cuffaro, e che facevano ipotizzare una corruzione mafiosa. 2)
Un pizzino di paternità incerta (Ciancimino? Riina? Provenzano? Un loro
scriba?) con minacce e promesse di appoggio a B. in cambio di una tv
Fininvest. Grasso l’altra sera si è fatto una risata: ai suoi tempi
Massimo Ciancimino “non collaborava” e i Carabinieri o i suoi sostituti –
lui, mai – “commisero degli errori o forse trascurarono qualcosa”. Già,
ma era difficile che Ciancimino collaborasse, visto che la sua Procura
non gli domandò nulla sulla trattativa. E non fece domande sulle carte
sequestrate a Ciancimino jr. sulla trattativa: come il pizzino su B. e
Dell’Utri (puntualmente segnalato dall’Arma alla Procura). Grasso dice
che “non si sapeva chi l’avesse scritto, forse Provenzano o Riina”.
Invece di indagare meglio, lo gettarono in uno scatolone, dove lo
ritrovò un pm dopo la dipartita di Grasso.
Quanto alle telefonate dei/sui quattro politici, Grasso sostiene che non
erano dirette, ma fra terze persone che accennavano a nomi di battesimo
imprecisati: i Carabinieri non capirono che “Totò” era Cuffaro e
“Saverio” era Romano (probabilmente pensarono al principe De Curtis e a
Borrelli), dunque ignorarono i nastri “senza neppure trascriverli”. Ma
neanche questo è vero: le telefonate erano fra Ciancimino jr., Lapis e
tre politici. Grasso aggiunge che, in ogni caso, “Cintola è morto,
Cuffaro è stato condannato, Romano è stato assolto e per Vizzini c’è una
richiesta di archiviazione per prescrizione”, dunque la dimenticanza
“non fu un gran danno”. Ne avesse azzeccata una: Cuffaro è stato
condannato per altro (favoreggiamento mafioso) e Romano assolto per
altro (concorso esterno). Sulla presunta corruzione mafiosa, Cuffaro è
uscito dalle indagini; per Romano pende una richiesta di archiviazione
per prescrizione; idem per Vizzini perchè il Parlamento ha negato l’uso
di numerose intercettazioni. É incredibile che il Pna uscente ignori
fatti così gravi. Se poi sul caso incombe il rischio di prescrizione, è
proprio perchè le bobine furono ignorate nella sua gestione nel 2005 e
scoperte dai suoi successori nel 2008, perdendo tre anni preziosi. In
realtà i carabinieri obbedirono a una circolare diramata da Grasso il
26.11.2004 sulle intercettazioni di parlamentari su utenze di soggetti
terzi: “Non dovranno essere riportate nelle richieste di intercettazioni
o di proroga, né in qualsiasi altra nota… all’Autorità giudiziaria”, ma
solo trasmesse con “note separate” alla Procura, mentre nei
“brogliacci” si deve annotare solo che le intercettazioni esistono.
Così, se un killer confida a un deputato che sta per uccidere qualcuno,
la polizia non può riportare la conversazione nella richiesta di
intercettare il killer, solo perché il killer ha preannunciato
l’omicidio a un deputato. Senza la circolare, magari, i Carabinieri
avrebbero segnalato alla Procura le telefonate dei politici. E la
Procura di Grasso si sarebbe forse accorta per tempo della loro
esistenza.
Balla n. 4: le querele minacciate. “Mai minacciato querele a Travaglio”, assicura Grasso. Invece il 10.1.2006 Grasso definì il libro Intoccabili. Perché la mafia è al potere (Bur)
scritto da Lodato e da me “opera di disinformazione scientificamente
organizzata” (non disse da chi) e aggiunse: “Non mancheranno le ‘sedi
giudiziarie ed istituzionali in cui far trionfare la verità’”. Poi
naturalmente se n’è tenuto alla larga.
Balla n. 5: l’amante del confronto.
Grasso lamenta, sull’orlo delle lacrime, l’impossibilità di ottenere un
confronto col sottoscritto. Se ciò fosse vero, accetterebbe il mio
invito a dibattere con me a Servizio Pubblico, Otto e mezzo, al Tg di
Mentana, o da Lerner. E, se ciò fosse vero, avrebbe risposto venerdì a
Santoro che lo cercava tramite la batteria del Viminale, anziché fargli
rispondere (l’indomani e da una segretaria) che era totalmente impegnato
sabato e domenica (peccato che sabato fosse a Roma, ai funerali di
Manganelli). Personalmente cerco un confronto con lui da dieci anni.
Nell’estate 2003, quando ricostruii per MicroMega le drammatiche
spaccature nate nella sua Procura (quelle che lui liquida come “normali
dialettiche interne”, mentre lui si sforzava di “tenere unita la
magistratura”), il direttore Flores d’Arcais lo invitò a un forum in
redazione o a un confronto con Scarpinato. Ma Grasso declinò entrambi
gli inviti. Idem quando molti dei suoi pm chiesero un confronto con lui
dinanzi al Csm.
Balla n. 6: caso Schifani.
Archiviato ai tempi di Grasso, Schifani è stato di nuovo indagato dopo
la sua dipartita. E, contrariamente a quel che lui afferma, non è stato
archiviato: la richiesta è ancora all’esame del gup Piergiorgio
Morosini.
Balla n. 7: le leggi anti-Caselli.
Dice Grasso che, contrariamente a quanto ho sostenuto a Servizio
Pubblico, le tre leggi del governo Berlusconi nel 2005 per eliminare il
suo concorrente Gian Carlo Caselli dal concorso per la Dna, non furono
da lui “ottenute”. Gli piovvero in testa come la casa di Scajola: a sua
insaputa. “Ottenere significa chiedere e io non ho mai chiesto niente”.
Ma ottenere significa anche meritare. Si è mai domandato perché ha
meritato tre norme (e da che governo!) contro il suo unico avversario, e
dunque in suo favore? E perché i cinque membri laici del centrodestra
al Csm votarono per lui? E perché, mentre il centrodestra cannoneggiava,
spiava fin dentro i calzini, insultava, attaccava, faceva punire,
chiedeva di trasferire, delegittimava tutti i magistrati più in vista
d’Italia, e tutti i pm antimafia, elogiava, applaudiva, favoriva per
legge e votava soltanto uno: lui? Grasso sostiene che le tre leggi non
ebbero effetto perché il Csm avrebbe potuto procedere alla nomina del
Pna in un plenum straordinario, in fretta e furia, prima che entrasse in
vigore la terza e decisiva legge anti-Caselli. Il quale dunque “se la
deve prendere con i colleghi che impedirono la decisione”. Balle: la
commissione Incarichi direttivi dà 3 voti a lui e 3 a Caselli il 12
luglio 2005; e il 20 luglio viene approvata la legge: come può il plenum
deliberare in una settimana, visto che uno dei relatori delle
candidature deve ancora stendere le motivazioni? Inoltre la lettera che
chiedeva il plenum straordinario su input del centrodestra era
irricevibile, infatti non ebbe risposta dal vicepresidente Rognoni. La
legge poi ebbe un effetto gravissimo: escludendo Caselli, gli impedì di
ricorrere al Tar contro la nomina di Grasso vantando titoli e anzianità
che Grasso si sognava. In ogni caso resta la questione di principio: un
cultore della Costituzione come Grasso dovrebbe sapere che l’art. 105
affida le nomine dei magistrati al Csm senza interferenze del governo. E
avrebbe dovuto rifiutare quel concorso truccato a suo favore. Invece ne
approfittò senza batter ciglio, salvo poi – quando la Consulta dichiarò
incostituzionale l’ultima norma – riconoscere che sì “era stata contro
Caselli e a favore mio”, ma conservando la poltrona. Ottenuta, sì
“ottenuta” in quel modo scandaloso.
* * *
Esaurito – per esigenze di sintesi e per ora (il resto domani a Servizio Pubblico) – il capitolo-balle, e sorvolando sul paragone tra le critiche di un giornalista e le minacce dei mafiosi alla sua famiglia, restano un paio di violenze alla logica che confermano platealmente la sua fama di italianissimo furbo, una sorta di Alberto Sordi della toga.
Esaurito – per esigenze di sintesi e per ora (il resto domani a Servizio Pubblico) – il capitolo-balle, e sorvolando sul paragone tra le critiche di un giornalista e le minacce dei mafiosi alla sua famiglia, restano un paio di violenze alla logica che confermano platealmente la sua fama di italianissimo furbo, una sorta di Alberto Sordi della toga.
8. Premio antimafia a B.
È stato tutto un equivoco, colpa di “quei birbanti de La Zanzara”. Ma
per non cadere nel presunto tranello, anziché dire e ripetere che B.
merita “un premio speciale” antimafia, bastava rispondere: “No, nessun
premio a chi dice che Mangano è un eroe e che i magistrati sono matti,
antropologicamente diversi dalla razza umana, golpisti, cancro della
democrazia”. Nessuno avrebbe equivocato.
9. Processi & (in)successi.
Se un pm si chiama Ingroia o Caselli o Gozzo e si vede condannare un
imputato, tipo Dell’Utri, per Grasso “non deve viverlo come un
successo”. Anzi, come una sconfitta, perché il processo “è durato
troppo”. Se invece l’imputato si chiama Cuffaro e viene condannato e il
pm si chiama Grasso, allora è un trionfo: la prova che il suo “metodo” è
quello giusto, mentre quello degli altri era sbagliato, viziato da
“processi gogna” a politici poi assolti, dunque da non processare
proprio (ma i processi non servono proprio a stabilire se uno è
colpevole o è innocente?). Quali? “Non è elegante fare nomi”. Invece i
nomi dei suoi imputati politici Grasso li fa eccome e molto
elegantemente. Tanto ce n’è solo uno: Cuffaro. Anzi no, ha sgominato
anche un altro pezzo da 90: “Vincenzo Lo Giudice detto Mangialasagne”,
nientemeno che consigliere regionale Udc. E qualcuno osa insinuare che
si sia tenuto a distanza dalle indagini sulla politica?
10. Applausi da B. e Dell’Utri. Se B. applaude il suo discorso al Senato e se Dell’Utri si spertica in elogi in ogni intervista, è colpa del Fatto che
chiede pareri su di lui a “persone non in auge dal punto di vista
dell’opinione pubblica”. Ma Dell’Utri, prima che lo intervistassimo,
aveva già esternato qua e là in difesa di Grasso: “È equilibrato, un
uomo di Stato. Lui sa chi sono io… Grasso è brava persona, sono contento
per la sua elezione a presidente del Senato… Non è un magistrato
fanatico come Ingroia”. E già nel 2004 gli aveva dipinto un
impareggiabile ritratto umano: “Grasso, quando era giovane, giocava a
calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perché a fine
partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui
riusciva sempre a non schizzarsi…”. Comunque, promesso: la prossima
volta che ci servirà un parere su Piero Grasso, chiederemo direttamente a
Piero Grasso.
Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2013
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